Fumando un toscano al davanzale della mia finestra, guardavo la neve cadere a grandi fiocchi sul quartiere arabo di Gerusalemme. Si vedevano i tetti del vicinato e qualche facciata in pietra, chiara e lucente, si intuiva il percorso delle strade e, in direzione della città vecchia, si scorgevano il campanile di una chiesa ed il minareto del cimitero della Salah ed-Din. Una cupola dorata riverberava nel sole. Tutto era molto tranquillo.
Ma verso sudest, ecco, si apriva una breccia tra i muri delle case ed un alto cipresso, folto del suo verde scuro. Attraverso di essa si intravedeva il Monte degli Ulivi ed un piccolo settore del cimitero che ne ricopre una gran parte. Da quella breccia si poteva lasciare il quotidiano e passare alla spiritualità di tante morti in attesa dell’ultimo giorno.
Quante esistenze racchiudevano le pendici del monte? Quante lotte e quante speranze? Una distesa senza fine apparente di tombe, tutte così uguali eppur uniche in ciò che custodivano. Il senso ed insieme l’assurdità che avevano fatto di quel posto un luogo santo lo avevano intriso di sangue versato per una vittoria che gli uomini non sono mai stati in grado di ottenere. Né di meritare.